Il dolore dovuto al mal di testa cronico sa essere subdolo, è dotato di un tempismo perfetto. È un galante signore imbellettato che si presenta alle porte del tuo corpo, vi accede senza nemmeno che tu, precario possidente di un ammasso di carne, te ne renda conto. Il dolore, implacabile, è un clochard messo in ghingheri da qualche strambo e anche un po' sadico marionettista, che in men che non si dica rende te, la sua marionetta preferita. Un tenero cagnolino lo accompagna al guinzaglio, dal passo svelto e disinvolto, dall'incedere dinamico e con uno sguardo buffo e indecifrabile. Il piccolo ammasso di peli si presenta a te col nome di sofferenza, che credo sia una cosa ben distinta dal dolore.

La sofferenza è la percezione sensitiva del dolore stesso. Allora cos'è che reca il più grande danno? Il dolore o la sofferenza? Si potrebbe dire che l'uno non possa esistere senza l'altro. Quel nobil signore dal monocolo in bella vista e forse vecchio quanto il mondo non esisterebbe senza quell'altrettanto scodinzolante cagnolino, che gli è così tanto affezionato. Sembrano inseparabili i due, e mentre si avvicinano a me il primo mi tende la mano, mentre quello spigliato animaletto inizia ad abbaiare. Allora mi volto come per partirmi da costoro. Dopotutto, chi prenderebbe mai per mano uno sconosciuto? Tuttavia egli è proprio dietro di me, con sguardo placido ma al contempo sentenzioso, e quel buffo esserino ancora che emette quegli striduli guaiti, a tratti capricciosi, a tratti quasi a schernirmi. Mi chiedo allora perché quell'uomo ben vestito si sia rivolto proprio a me, come sua vittima sacrificale. Ha il volto di chi sa, di chi ha esperienza. Scorgo le sue rughe che un po' lo deteriorano e un po' lo rendono sensibilmente fascinoso. La sua mano ancora protesa verso di me ed io ancora così riluttante. Ad ogni mio passo il dolore è con me, non ha intenzione di abbandonarmi e a poco a poco capisco che non lo farà. Dunque mi fermo, prendo un respiro profondo e gli chiedo, con voce sprezzante ed esitante:

"perché sei arrivato così improvvisamente, tu essere così fiero, dai capelli canuti e dalle labbra raggrinzite che sottendono a un'aria di così tanto ammonimento bonario?"

Egli non accenna la minima risposta, l'unica cosa che fa, è tendermi la mano, questa mano instancabilmente protesa verso di me che mi annebbia i sensi e offusca il cammino che ho davanti. Continua a tenere l'arto retto nonostante io sia fermo sui miei passi, mentre il suo fido amico a quattro zampe non accenna a smettere di abbaiare, anzi, possibilmente rincara considerevolmente la dose.

"Io non do la mano agli sconosciuti" è il primo pensiero che mi balza alla mente. Ma fondamentalmente, se ci si pensa, ogni rapporto tra sconosciuti inizia con una stretta di mano, e si evolve. Il dolore vuole essermi amico? Ma io non voglio un amico così sgradito. E se dovesse autoinvitarsi a cena? O a dormire da me? O se dovesse infastidirmi con tutti i suoi discorsi sull'essenza dell'umanità? E se quel buffo cagnolino che lo segue fedelmente dovesse iniziare a fare i bisogni dappertutto?

Ma dopotutto, ora che ci penso, è realmente uno sconosciuto? Ha solo l'aspetto più trasognato e qualche ruga in più, forse è cresciuto con me senza che io me ne rendessi effettivamente conto. Non so se sono pronto a dar la mano al dolore, ma sono abbastanza sicuro che qualora un giorno dovessi scegliere di farlo, lui smetterebbe di chiedermela, non ostacolando più il mio passo ma fiancheggiandomi, e quel chiassoso cagnolino smetterebbe di abbaiare.