La parola "compassione" deriva dal latino "cum" (insieme) e "patior" (soffro) e significa pertanto la capacità di sentire la sofferenza dell'altro.
L'accezione che ha comunemente comprende una velata superiorità del soggetto che la prova, un po' di pietismo. A me piace usarla invece nell'accezione buddhista in cui il soggetto che prova compassione e l'oggetto della compassione sono sullo stesso livello.

L'oggetto della compassione può essere un'altra persona, un'emozione oppure me stessa. Quando provo compassione verso un'altra persona sono capace di sentire la sua sofferenza e posso abbracciare amorevolmente questa sofferenza per accoglierla e trasformarla. Sono di aiuto. Posso fare questa operazione anche verso le mie emozioni: quando arriva un'emozione forte posso vederla, riconoscerla, provare compassione, abbracciarla con la mia compassione per farle sentire che io ci sono, che la capisco e mi prenderò cura di lei.

E poi voglio provare compassione verso me stessa, verso la mia stessa sofferenza. Verso di me quando ho dolore. Posso abbracciarmi amorevolmente e far sentire al dolore e alla sofferenza che io ci sono e mi prenderò cura di loro in me. Possiamo guardare a noi stessi e agli altri con gli occhi della compassione.