Lo scorso mese di maggio è stato pubblicato sulla rivista BMC Neurology un commento, redatto dal gruppo di studio del Dr. Faisal Mohammad Amin del prestigioso Centro Cefalee dell’Università di Copenhagen, che affronta un tema che sta molto a cuore alla nostra community, che vive soprattutto on line, grazie ai social network. Affronta il tema del ruolo crescente dei media elettronici nella cefalea. Ne parliamo con Gabriele Corrao, neurologo, esperto di cefalee e osservatore dei fenomeni social relativi agli aspetti sanitari, che lo ha letto e commentato per noi:

Dottor Corrao, perché parlare di Social Media nel campo delle cefalee?

Già agli albori della diffusione di internet si era posto il problema di come divulgare e informare gli utenti utilizzando le “moderne” piattaforme elettroniche, rispettando i criteri deontologici di indipendenza, imparzialità, esclusivo interesse per il paziente e corretta informazione. A tali questioni, già nel lontano maggio del 1996, risposero il Professor Jean-Raoul Scherrer ed il consigliere di Stato Ginevrino Guy-Olivier Segond stilando il protocollo HONCode (Health on the Network Code), un insieme di regole per la corretta informazione e divulgazione sanitaria che è, ad oggi, nella sua versione aggiornata, uno tra i “gold” standard mondiali di riferimento. Tuttavia, da una decina di anni a questa parte internet è molto cambiato e da una comunicazione più statica e verticale, formata da pagine HTML, blog e newsletter si è passati ad uno scambio più orizzontale con un diretto coinvolgimento tra gli utenti. È esperienza comune che tutti siamo diventati reporter ed influencer della nostra vita, coinvolgendo i nostri amici e parenti in un divertente scambio perpetuo di informazioni, emozioni e foto. L’ articolo del Professor Amin si focalizza sui social media più diffusi che sono Facebook e YouTube. Questi sono utilizzati regolarmente da oltre due terzi degli adulti nel mondo occidentale. Poiché l’uso di Internet e dei social media continua a crescere, queste piattaforme rappresentano un’eccellente opportunità per diffondere le conoscenze sulla gestione e sui trattamenti a beneficio dei nostri pazienti. Diverse organizzazioni che si occupano di cefalee (l’International Headache Society, l’European Headache Federation e l’American Headache Society) utilizzano i social media per promuovere e mettere in luce le proprie competenze e diffondere i risultati della Ricerca sia ai pazienti che agli operatori sanitari. Questa divulgazione avviene prevalentemente attraverso i loro siti web e i loro profili “social”, offrendo ai pazienti un facile accesso alle informazioni mediche più affidabili e verificate.

Quindi sono tutti aspetti positivi?

Purtroppo, no. Esiste il rischio che i pazienti trovino sui social media informazioni non accurate o create da persone non qualificate con l’intento di trarre profitto dalla sofferenza altrui. Di fatto, gli autori rilevano che i contenuti più popolari sulla gestione dell’emicrania su Google e YouTube, pur generando centinaia di milioni di visualizzazioni, non sono basati sull’evidenza scientifica e molto spesso sono chiaramente diffusi a scopo di lucro. Gli autori dello studio sottolineano come la scorretta, a volte ingannevole, divulgazione può portare a trattamenti inadeguati, se non dannosi e pericolosi per la salute. Il paziente cefalalgico, già poco supportato in famiglia e anche purtroppo soventemente mal gestito da qualche operatore sanitario, tende, nella sua dolorosa solitudine, a trovare un primo conforto nei mezzi informatici di comunicazione di massa ricorrendo molto spesso al fai-da-te e quindi posticipando la definizione di una corretta diagnosi e di una ottimale gestione dei farmaci anti emicranici in acuto ed in cronico. Molto spesso si nota, tra i nostri pazienti, che questo doloroso “vagabondaggio” digitale porta ad iniziare una corretta profilassi personalizzata e sapientemente “cucita” sul singolo paziente in ritardo con cronicizzazioni che potevano essere prevenute o quanto meno mitigate. Frequentemente, si rileva che il paziente, in assoluta buona fede, ricorre all’assistenza sanitaria adeguata e specialistica solo al termine di un lungo e infruttuoso pellegrinaggio presso “terapisti” ed “esperti” di dubbia specie, i quali si approfittano della solitudine e dell’anonimato di internet.

Nell’articolo che commentiamo oggi si parla pure dell’Infodemia, di che si tratta?

Infodemia è la crasi di “informazione” ed “epidemia” e si riferisce a un eccesso di informazioni su un argomento, come ad esempio una malattia, non sempre affidabili. La gestione delle infodemie nell’era digitale ha un ruolo sempre più importante nella gestione clinica di una malattia, soprattutto perché spesso i social media sono la fonte primaria o esclusiva di informazioni dei pazienti per alcuni disturbi. È proprio così nel caso dell’emicrania che in alcuni Paesi non è nemmeno riconosciuta come un vero disturbo neurobiologico ed è fortemente stigmatizzata, gettando i pazienti nello sconforto. Nell’era digitale, gli operatori sanitari dovrebbero cercare di influenzare il ruolo che le potenti piattaforme dei social media possono svolgere nella pratica della medicina per proteggere i pazienti e migliorare il nostro lavoro quotidiano. Ciò si può realizzare con il progressivo coinvolgimento in maniera professionale di tutte le Istituzioni sanitarie e organizzazioni coinvolte nella promozione della salute dei pazienti con cefalea. In qualità di operatori sanitari e membri di organizzazioni scientifiche che si occupano di cefalee, abbiamo l’obbligo di dare priorità all’educazione dei pazienti e degli altri operatori sanitati mediante la diffusione delle conoscenze più recenti e di tutte le informazioni fondamentali.

Ma all’atto pratico come è possibile sensibilizzare adeguatamente il pubblico?

Più di 1 miliardo di persone nel mondo è affetto da emicrania e i social media sono punti di accesso validi per informare questa numerosa popolazione. Ad oggi, questi sforzi hanno avuto un buon impatto, ma c’è ancora spazio per un miglioramento. Ad esempio, nell’articolo si cita il caso della Danish Headache Society, una società nazionale che non ha ancora una strategia consolidata per i social media e ha ricevuto un limitato numero di interazioni quando ha pubblicato il suo programma di riferimento per la diagnosi e il trattamento dei disturbi da cefalea. Al contrario, l’American Headache Society, una società che dà priorità alla diffusione online con risorse dedicate e con una strategia di social media che include diverse piattaforme, ha generato per contenuti simili in un periodo di tempo comparabile 60 volte più interazioni sui social media. Ancora meglio hanno fatto la European Headache Federation e la European Academy of Neurology che, con una recente guida open access in dieci passi per la gestione dell’emicrania, hanno finora raggiunto oltre 3 milioni di interazioni, 10 volte di più di quanto fatto dalla società americana. Per una volta possiamo affermare che l’Italia è fra i migliori, infatti da diversi anni la Società Italiana per lo Studio delle Cefalee (SISC), in collaborazione con la Società Italiana di Neurologia (SIN), ha promosso delle piccole “mini pillole” su YouTube e Facebook dove esperti qualificati realizzavano dei mini video (della durata di qualche minuto) per rispondere alle domande più frequenti dei pazienti cefalalgici in modo chiaro, conciso e diretto. Ecco, questi quattro esempi sono delle rappresentazioni di strategie vincenti che possono aiutare a ridurre lo iato, la distanza, fra pazienti e mondo sanitario in un contesto innovativo, accattivante e costruttivo. Ovviamente, non nascondo che tutto ciò prevede un grande costo per gli operatori, ma è un orizzonte ideale a cui tutti dobbiamo tendere. È possibile che vi siano differenze nella popolazione target e nella rilevanza (ad esempio, società nazionali o internazionali), ma possiamo e dobbiamo cercare di ottimizzare i fattori che massimizzano la diffusione di informazioni convalidate.

Si sa quali potrebbero essere i contenuti con maggior coinvolgimento per i pazienti sui social media?

I contenuti sull’emicrania forniti dai pazienti vengono visualizzati più spesso e per una durata maggiore rispetto a quelli degli operatori sanitari, che su YouTube rappresentano meno del 10% dei video più visti. Dal punto di vista dei contenuti, la medicina complementare e alternativa e gli approcci non farmacologici sono molto apprezzati dai pazienti, anche se i dati sui potenziali benefici di queste terapie sono discordanti. Le ragioni di queste preferenze possono essere molteplici, ma, in gran parte, si basano su un deficit di capacità comunicativa da parte dell’operatore sanitario. Purtroppo, infatti, solo da pochi anni i corsi di studi in medicina e l’interazione con altre professionalità come gli psicologi o gli esperti di comunicazione stanno portando i medici a riflettere e comprendere su come si “fa” informazione ed educazione sanitaria. È una giusta conseguenza del cambiamento del paradigma della professione medica nell’ alveo più grande della cura del paziente, ed è un nostro obbligo, morale e poi formativo, rispettare le volontà del paziente informandolo correttamente e rendendolo protagonista delle sue scelte. Inoltre, numerosi studi hanno evidenziato che un aumento della “buona” comunicazione fra pazienti e medici crea maggiore empatia e minor distanza. Ad esempio, nella loro narrazione i pazienti sono spesso umoristici e fanno esempi aneddotici che possono colpire di più chi ascolta, aumentando la probabilità di attrarre followers fidelizzati, rispetto ai freddi numeri e alle statistiche descritte dai medici. In tal senso, ad esempio, presentare le informazioni statistiche sottoforma di grafici potrebbe essere un modo semplice per aumentare l’impatto e la diffusione dei dati corretti. Un altro strumento potenzialmente attrattivo per gli operatori sanitari potrebbe essere il rispondere direttamente alle domande e ai dubbi dei pazienti sui social media, come con l’esempio che vi ho citato prima della SISC.

Dunque, quali sono le prospettive per il futuro?

Come operatori sanitari abbiamo la responsabilità di fornire informazioni chiare, libere, indipendenti e robuste ai nostri pazienti e ai nostri colleghi per aumentare l’alfabetizzazione sanitaria sulla cefalea. La chiave per affrontare la crescente infodemia dei disturbi da cefalea non è solo generare maggiori conoscenze, ma anche affrontare l’attuale panorama di informazioni disponibili e diffondere le conoscenze già in nostro possesso sulla gestione clinica. Riconosciamo che diverse società scientifiche hanno già realizzato valide campagne su diverse piattaforme di social media che hanno avuto un’influenza notevole; tuttavia, servono ulteriori sforzi per valutare le informazioni disponibili sulla cefalea nei media elettronici, caratterizzare le conseguenze dirette e indirette sulla gestione clinica e identificare le migliori pratiche e strategie per migliorare la nostra comunicazione sulle piattaforme di comunicazione basate su Internet. Tutti questi sforzi miglioreranno la comunicazione tra medici e pazienti, proteggendo questi ultimi da informazioni sbagliate e pericolose, quindi riducendo e mitigando il peso globale della malattia.

Intervista  a cura di Roberto Nappi