Dott. Bacchi, com’è cambiato oggi il rapporto medico-paziente rispetto al passato?

Dagli esordi della pratica della medicina è presente una riflessione sulla natura e sui processi culturali e biologici che portano a confrontarsi con la realtà costituita da medicopaziente. È necessario implementare la centralità del paziente nell’ambito del processo di prevenzione, diagnosi e cura. Si tratta di un fenomeno che se da una parte caratterizza la medicina moderna e getta le basi per una differente mentalità verso i temi della salute e del benessere, dall’altra rischia di alterare lo storico rapporto medico-paziente. Il medico deve continuare a rappresentare il riferimento per la gestione di salute e benessere, anche se i cittadini avvertono forte l’esigenza di approfondire in autonomia i temi legati alla salute e di confrontarsi con chi ha attraversato la medesima esperienza di malattia e di cura.

 

Sempre più pazienti, infatti, esigono un rapporto per così dire paritario: vanno assecondati oppure no?

Quasi sempre in passato il paziente subiva passivamente le decisioni che i medici prendevano per lui. Qualche volta, nella migliore delle ipotesi, i curanti consultavano i parenti stretti del malato, ma più in generale si tendeva ad escluderlo dalle riflessioni intorno alla sua malattia, nella convinzione di evitargli un turbamento che avrebbe potuto comprometterne il recupero.
Oggi, invece, è sempre più consolidato il patient engagement cioè il coinvolgimento del paziente, che attivamente partecipa a tutto ciò che riguarda il suo percorso di prevenzione, diagnosi e cura. Quest’ultimo concetto è quello da implementare ed adottare sempre nel rispetto dei ruoli.

 

Un ruolo fondamentale in questa evoluzione è rappresentato da Internet, dove si trovano informazioni di ogni tipo. Come educare il paziente a farne un uso responsabile?

Il cittadino attualmente è sempre più consapevole, interessato e autonomo nella ricerca di informazioni che riguardano la sua salute. Sempre più spesso il paziente giunge al medico dopo essersi informato (o parzialmente informato se non disinformato) tramite Internet ed in alcuni casi suggerisce al medico la terapia o gli accertamenti da eseguire. Il medico a cui il paziente si rivolge deve essere capace di spiegare, con garbo, che non bisogna prendere per “oro colato” tutto ciò che si trova sul web. Gli interessi commerciali, a volte, portano alla diffusione di “fake news”, cosa ancor più grave quando c’è di mezzo la salute.

 

La tendenza ad una medicina sempre più condivisa aumenta o riduce il rischio di ricorrere alla medicina cosiddetta difensiva da parte del medico?

La Commissione parlamentare d’inchiesta sugli errori sanitari ha stimato in 10 miliardi di euro annui i costi della medicina difensiva attiva, vale a dire il costo di quelle prestazioni inutili (quando non dannose) che i medici prescrivono solamente per sventare o ridurre il rischio di un contenzioso legale con il paziente e i suoi familiari. È una realtà nota e può accadere che i medici prescrivano farmaci o esami soltanto per “tenere buoni” pazienti troppo ansiosi o, addirittura, per tutelarsi da possibili azioni giudiziarie.
Il paziente vuole essere protagonista del suo decision making, ma deve essere il medico a fargli da guida, ad orientarlo e supportarlo nella comprensione della diagnosi e nella gestione attiva e consapevole del percorso terapeutico. Il patient engagement agevola il passaggio da cittadino utente a cittadino protagonista ed asseconda l’evoluzione del concetto di salute già ratificato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. Dal 1946 l’OMS non definisce più la “salute” come “semplice assenza di patologie organiche”, ma privilegia il concetto di “stato di completo benessere fisico, psichico e sociale”.
In definitiva, se la medicina condivisa non è attuata nel pieno, consapevole e rigoroso rispetto dei ruoli, il reale rischio dell’aumento della iper tutela da parte del medico (appunto la medicina difensiva) è sempre più incombente.

 

Nella sua personale esperienza di medico del lavoro, come ha visto cambiare la consapevolezza sull’importanza di lavorare in salute in un ambiente salutare?

Aumentare la consapevolezza dei Datori di Lavoro e dei Lavoratori sull’importanza della realizzazione della gestione e organizzazione della Sicurezza Aziendale è imprescindibile, in quanto salute e benessere sono essenziali per lo sviluppo economico e sociale, quindi anche dell’azienda stessa. I Datori di Lavoro possono contribuire in maniera determinante allo sviluppo di programmi ed attività intergenerazionali che promuovono la salute di giovani ed anziani. Per quanto concerne i giovani, i suddetti programmi possono includere da un lato attività educative finalizzate alla promozione di un sano stile di vita, anche con il coinvolgimento delle organizzazioni associative, dall’altro l’attivazione di programmi formativi di alfabetizzazione sanitaria. Per quanto concerne i lavoratori a termine carriera, le iniziative volte alla tutela della salute sul luogo di lavoro consentono di apportare benefici sia alla loro salute del singolo sia alla loro qualità della vita.

 

E il lavoratore? È consapevole dell’importanza di lavorare in un ambiente sano e confortevole?

Sicuramente, negli ultimi anni l’attenzione dei lavoratori è aumentata anche per merito dei media. Ma quanto siamo disposti a contribuire al mantenimento della nostra salute in azienda? Probabilmente non quanto dovremmo. Trascorriamo almeno 8 ore della nostra giornata in un luogo diverso dalla nostra abitazione, ma non per questo meno importante. In azienda trascorriamo un terzo della nostra quotidianità.
Non è però infrequente verificare, da parte di lavoratori, pretese (del tutto legittime) di lavorare in un ambiente che non crei nocumento alla salute. Quante volte siamo (giustamente) incaricati di controlli in merito alla quantificazione di una eventuale polverosità di un ambiente, alla presenza di polveri sottili o comunque di inquinanti areodispers ma... quante volte cerchiamo di spiegare che, ad esempio, il fumo di sigaretta possa risultare più dannoso del PM10 o comunque che l’effetto sinergico possa essere deleterio? Quante volte non smettiamo di abusare di alcool o sostanze psicotrope, ma chiediamo attenzione sulla presenza di possibili inquinanti? Come se i nostri comportamenti extralavorativi non incidessero sulla nostra salute...

 

Qualcosa sta cambiando?

Fortunatamente sì. Questi comportamenti incoerenti, se così si può dire, sono sempre più appannaggio di una quota residuale di lavoratori. La maggioranza, infatti, ha ormai acquisito consapevolezza che l’ambiente (in senso lato, non solamente quindi quello lavorativo) è un “mondo” nel quale siamo costantemente immersi, un mondo che non solo ci circonda, ma ci appartiene. La salute di tutti, e quindi anche la nostra, oltre a farci vivere meglio, può efficacemente contribuire all’incremento della produttività, a rendere più efficiente la forza lavoro, ad un invecchiamento più sano e ad una riduzione delle spese per malattia e indennità. La salute ed il benessere della popolazione lavorativa possono essere raggiunti, con maggiore efficacia, se tutto il management aziendale lavora per indirizzare tutti i determinanti sociali ed individuali alla salute. Una buona salute, dunque, può addirittura sostenere la ripresa economica e lo sviluppo.
La Salute non è un astratto concetto. Deve anche essere un modo di vivere, il nostro.

 

Intervista a cura di Roberto Nappi