Professor Rastrelli, come mai un farmacologo si interessa di Etnomedicina ed Etnofarmacologia?

L’Etnofarmacologia è una scienza interdisciplinare incentrata sullo studio farmacologico e culturale di piante medicinali utilizzate da determinate popolazioni. Un etnofarmacologo studia la risposta spontanea dei popoli, mediante l’utilizzo di risorse naturali disponibili, alle malattie, al fine di valutare e capire attraverso il metodo scientifico se un empirismo terapeutico tradizionale possa poi esser incorporato nelle moderne farmacopee. Le piante medicinali sono una fonte inesauribile di principi attivi utili in vari ambiti e l’etnobotanica può aiutare ad individuarne sempre di nuove.

 

Chi, o come, immagina che fosse il primo “protofarmacologo” della storia?

Chissà! Medicina Ayurvedica, medicina Cinese, Tibetana e Unani, medicina dell’Amazzonia e della selva tropicale, medicina Andina. Secoli di isolamento e pratiche mediche tramandate oralmente o attraverso antichi scritti. Il primo guaritore tribale di uno di questi millenari sistemi di guarigione sarebbe senza dubbio contento, sapendo che la sua “cultura medica” basata su piante, minerali o animali applicati nei rituali di guarigione è giunta fino a noi. Quando la cura era particolarmente complessa, egli si è affidato ai propri sogni o all’interpretazione di quelli del malato per scegliere il modo migliore per condurlo all’equilibrio psicofisico. Nella medicina tradizionale, l’effetto fisiologico non può essere separato da altri significati emotivi e spirituali, dall’insieme dii rituali sacri, orazioni e invocazioni, cerimonie di purificazione, pratiche di cura. Tutto ciò è antropologicamente molto interessante e rilevante da un punto di vista culturale.

 

Parlando di Etnofarmacologia occorre pensare ad una disciplina solo folcloristica, o risponde agli stessi criteri di rigore scientifico applicati alla moderna farmacologia?

Nonostante i sistemi di guarigione folkloristici e moderni abbiano l’obiettivo comune di aiutare i pazienti, i due sistemi sono molto divergenti per qualsiasi integrazione significativa. La medicina moderna si basa sulle evidenze e il vaglio preventivo di qualsiasi novità, mentre i guaritori potrebbero affermare di essere guidati dagli antenati o dalle loro visioni. Come scienziati, non possiamo farci coinvolgere negli aspetti non scientifici della medicina tradizionale, il nostro ruolo è di promuovere il miglioramento della salute, anche attraverso l’uso delle piante medicinali, combinando discipline, risorse, competenze e tecniche

 

Qual è la traslazionalità tra lo studio della medicina tradizionale e la farmacologia moderna?

La ricerca traslazionale collega il lavoro preclinico al clinico, nell’Etnofarmacologia c’è una “traslazione inversa”, dal letto al laboratorio. Osservando gli esiti di un trattamento, s’indaga in laboratorio per isolare molecole a base vegetale da studiare in vitro, per chiarire la modalità di azione, poi in vivo per valutare assorbimento, distribuzione, metabolismo, eliminazione e tossicologia, quindi nuovamente studi clinici, per ottenere finalmente il farmaco. Vi sono ancora alcune criticità. La maggior parte del lavoro preclinico è svolto da ricercatori non medici avulsi dalle sperimentazioni cliniche. Spesso, nelle conclusioni di studi preclinici si leggono affermazioni del tipo: “Questi dati supportano l’uso di questa pianta nella medicina tradizionale”. Purtroppo, queste affermazioni sono spesso molto generali e, di fatto, non sono suffragate dai dati presentati, che potrebbero fornire supporto per futuri studi, ma non per formulare raccomandazioni per l’uso nei pazienti. Occorre aumentare la qualità del lavoro preclinico. Le sperimentazioni cliniche sulla medicina tradizionale devono soddisfare gli standard scientifici fissati per le sperimentazioni cliniche dei farmaci e portare allo sviluppo di pratiche mediche sicure e basate sull’evidenza. È incoraggiante vedere che in molte parti del mondo sono stati avviati diversi programmi per formare ricercatori clinici a condurre in modo specifico studi sulla medicina tradizionale.

 

Potremmo quindi dire che la Etnomedicina sia un po’ la madre della moderna nutraceutica?

Si certo! È però un termine abbastanza forzato e di moda, in realtà dal punto di vista storico, normativo, e delle evidenze scientifiche sarebbe più corretto parlare di integratore alimentare o di "food supplement". Piante alimentari, erbe aromatiche e spezie contengono una miriade di sostanze fitochimiche con proprietà medicinali che opportunamente estratte e formulate hanno dato vita al mercato degli integratori alimentari.

 

Esistono esempi di sostanze studiate in Etnomedicina che siano state testate nel campo delle cefalee e con quali risultati?

Molti cefalalgici si rivolgono alla fitoterapia in sostituzione o in aggiunta alle terapie farmacologiche convenzionali. Circa l’80% delle piante utilizzate nelle medicine tradizionali presentano metaboliti con azione antinfiammatoria, analgesica o comunque in grado di contrastare i meccanismi alla base delle principali forme di cefalee. In particolare, flavonoidi, fenilpropanoidi e terpenoidi sembrano poter bloccare i mediatori chimici coinvolti nell’insorgenza delle cefalee. Ad esempio, i diterpeni estratti dal girasole, dal sambuco e dall’artemisia agiscono come i farmaci antiinfiammatori non steroidei solitamente assunti contro le cefalee. Altre piante dalla spiccata azione antiinfiammatoria sono il Dong quai (Angelica sinensis) della medicina tradizionale orientale e le specie del genere Salix, ricche di acido salicilico precursore dell’aspirina. Vi sono piante il cui uso è supportato da studi in doppio cieco e sono suggerite in varie linee guida ufficiali. È il caso dell’estratto di radice del butterbur (Petasites hybridus), efficace già dopo un mese di terapia. Anche il Tanacetum parthenium (feverfew) ha proprietà curative nelle cefalee. Lo zenzero, utile in vari disturbi neurologici secondo la medicina ayurvedica, è uno dei cibi antinfiammatori per eccellenza ed è molto efficace nella cura e nella profilassi nell’emicrania senza effetti collaterali. Sempre dalla medicina ayurveda, l’Andrographis paniculata ha proprietà antiossidanti, antiinfiammatorie e analgesiche.
Non si può non citare la cannabis, con i nuovi promettenti studi sui cannabinoidi nel controllo del dolore emicranico.Infine, un ruolo potrebbe esserci per gli oli essenziali, ricchi di esteri volatili ad attività antispasmodica e calmante (olio di menta, di lavanda, di eucalipto). Alcune gocce possono essere aggiunte in acqua calda per creare dei vapori, antica pratica utilizzata anche dagli aborigeni australiani con le foglie di Eremophila bignoniiflora per la loro azione antispasmodica e per trattare la cefalea.

 

Spesso parlano di rimedi “naturali” ed “integratori” in maniera impropria personaggi che nulla hanno a che fare con le professioni sanitarie. Essendo questi prodotti di libera vendita, come possono fare i pazienti a non cadere vittime di acquisti incauti o, addirittura, di veri e propri raggiri?

L’utilizzo degli integratori alimentari ha avuto un forte diffusione negli ultimi anni e il valore del mercato è oggi superiore a quello del farmaco senza ricetta, ma il sistema delle regole del settore è molto complesso. Questi prodotti così come gli alimenti addizionati, i prodotti per lo sportivo, le formule per lattanti, gli alimenti senza glutine, gli alimenti destinati a fini medici speciali sono soggetti a libera vendita a seguito notifica al Ministero da parte di operatori del settore alimentare. Gli integratori sono reperibili anche al di fuori dei comuni canali commerciali, ad esempio su Internet. Consiglio di diffidare di integratori propagandati come miracolosi, ricordando che seppur con ruoli diversi il medico e il farmacista sono gli unici interlocutori di riferimento del consumatore che si rivolge a loro per un consiglio sull’ utilizzo di integratori e prodotti fitoterapici.

 

Intervista a cura di Roberto Nappi