Spesso in letteratura scientifica viene segnalato che l’eccessiva sensibilità rispetto al dolore fisico nasce da pregresse esposizioni a dolori di tipo psicologico. Qual è la correlazione tra i due?

Direi che, allo stato attuale delle nostre conoscenze, la distinzione fisico/mentale è ormai piuttosto sfumata.
Sappiamo infatti che le nostre esperienze psichiche, dalla percezione all’attenzione, dal sentimento al pensiero, implicano sempre, a volta in misura più evidente a volte meno, una controparte fisica di tensioni muscolari, movimenti, alterazione del battito cardiaco, del respiro, della sudorazione, degli ormoni in circolo ecc., ragion per cui tutte le esperienze ci coinvolgono per intero, corpo e mente. Così come quasi sempre l’esperienza del dolore meramente fisico è connotata dalla lettura soggettiva che di esso si dà in funzione della propria personalità e della propria storia.
Il Budda, più di duemila anni fa, già parlava di come il dolore del colpo di una freccia fosse quasi sempre complicato dal dolore di una seconda freccia, che è quella dell’interpretazione soggettiva che si dà dell’accaduto e del dolore. Inoltre, sappiamo ormai che il nostro funzionamento mentale, tanto consapevole quanto inconscio, è fondamentalmente orientato all’adattamento alla realtà e plasmato dalle nostre esperienze di vita, soprattutto precoci e “traumatiche”. Ciò implica, tra le altre cose, che esperienze ripetute e protratte di dolore psichico (ammesso che abbia senso questa specifica) sensibilizzano al dolore e creano uno stato generale di allerta che acuisce la sensibilità stessa al dolore e al ripresentarsi di esperienze dolorose. Ma può verificarsi anche il fenomeno opposto, per cui si sviluppa una certa “anestesia” al dolore, anche fisico, che rende le persone più suscettibili a incidenti e meno attente ai segnali sofferenza del corpo. È peraltro interessante notare come spesso il dolore psichico – in particolare quello connesso a esperienze di esclusione da quello che viene vissuto come il proprio gruppo di appartenenza – sembri attivare le stesse aree del cervello coinvolte nell’esperienza del dolore fisico. Alcuni poeti lo hanno già notato, basti pensare al celebre verso di Borges “mi fa male una donna in tutto il corpo”.
A partire da questo dato, credo che possiamo avere anche una prospettiva diversa sul motivo per cui i farmaci, e in particolar modo gli analgesici, spesso diventino oggetto di dipendenza. Il farmaco può essere infatti vissuto come “l’agente che lenisce il dolore”, assumendo così un significato analogo a quello della mamma che toglie la bua al piccolo. E credo sia piuttosto interessante a tal proposito notare come gli oppioidi siano sia analgesici potenti sia i mediatori chimici del sistema cerebrale dell’attaccamento.
Quando una mamma corre ad abbracciare il bambino che, cadendo, si è fatto male e si è spaventato, e quando il medico si occupa del paziente, entrano in gioco gli oppioidi. Ed è risaputo, e forse a questo punto meno oscuro, come l’esperienza di qualcuno che si prende cura di te già di per sé riduca il dolore – fenomeno noto anche in medicina come effetto placebo.

È possibile in età adulta, per chi in infanzia è stato esposto ad abusi o è stato trascurato dai genitori, riconoscere di aver avuto questo problema e porvi in qualche modo rimedio? Se sì, come?

Assolutamente sì. Spesso la ragione per cui i paziente traumatizzati cercano aiuto è per problemi più puntuali, come depressione, ansia, attacchi panico, difficoltà nella regolazione dell’autostima o delle emozioni, difficoltà relazionali o malesseri fisici senza apparenti cause organiche, poi nel corso del trattamento si arriva a comprendere e “ricordare” di aver subito abusi o di essere stati vittima di trascuratezza; a volte a facilitare questa “scoperta” o a far comprendere che ciò che si è vissuto sono episodi di abuso e trascuratezza è l’esperienza di trovare un’altra persona, il clinico, un partner, un amico, che li tratta diversamente. E, in estrema sintesi, direi che due degli elementi chiave per porre rimedio alle conseguenze di queste esperienze sono la possibilità di fare esperienze relazionali di tipo diverso nel contesto di una relazione intima emotivamente rilevante e la possibilità di riconoscere e ricordare quanto accaduto, comprendendo la sua collocazione nel tessuto delle proprie esperienze, le conseguenze che ciò ha esercitato sulla propria vita, riducendo l’intensità delle conseguenze dell’accaduto anche a livello somatico, mitigando il livello di allerta, ansia, depressione e tensione.
Nel corso degli ultimi anni sono state sviluppate tecniche di intervento e interi modelli per la comprensione e il trattamento del trauma che danno centralità al lavoro con e sul corpo: meditazione, yoga, danza, musica vengono oggi usati anche in psicoterapia. Per non parlare dell’EMDR. Le ricerche, però, non segnalano una chiara superiorità dell’efficacia di questi interventi rispetto a quelli mediati prevalentemente dalla parola. E, tutto sommato, la possibilità di vivere relazioni intime positive che permettano di parlare di quanto accaduto e riflettere sulle sue conseguenze in un clima di sicurezza credo resti l’elemento centrale di qualsiasi forma di intervento psicoterapico. D’altra parte, se ci riflettiamo, è il modo in cui le esperienze traumatiche sono state “elaborate” nei millenni. Discorso ugualmente interessante, ma che credo esuli da quanto stiamo dicendo, è quello dell’elaborazione collettiva dei traumi condivisi. Ultimo elemento fondamentale dell’elaborazione dei traumi è aiutare le vittime a superare i vissuti di colpa e vergogna che quasi sempre a essi conseguono in virtù della tendenza della mente, soprattutto nell’infanzia, ad attribuire a se stessi la causa degli eventi negativi che si subiscono.

Oltre ai traumi pregressi, anche l’esposizione acuta o continuativa a situazioni stressanti è spesso descritta dai nostri pazienti come causa del peggioramento/cronicizzazione dei loro mal di testa, è come se il cervello reagisse con il dolore a stimoli fastidiosi, è possibile? Perché succede?
Direi che tra le poche certezze che abbiamo c’è che qualsiasi tipo di esperienze traumatica favorisca l’insorgere o l’ingravescenza del “dolore” e al contempo che non tutte le persone che sono state vittime di “traumi” sviluppano patologie franche. Tanto che oggi siamo tutti d’accordo nel ritenere che a essere patogeno o “salutogeno” sia il particolare incontro tra una persona con le sue peculiarità innate e il tipo di ambiente in cui si sviluppa e vive. Molto affascinante, e ancora lontano dal trovare una soluzione che trovi tutti d’accordo, è il problema di cosa possa essere ritenuto traumatico. Personalmente, credo che la definizione migliore di trauma sia un’esperienza che metta a repentaglio, in modo acuto, sistematico o cronico, il senso di sicurezza di una persona. Ma non abbiamo prove solide a sostegno dell’esistenza di nessi specifici tra trauma x e patologia y. Negli anni Ottanta del Novecento sono state esplorate molto le conseguenze degli abusi sessuali, oggi si tende a dare attenzione a fenomeni come trascuratezza e invalidazione. Ma che un tipo di trauma di per sé sia più rilevante di un altro per lo sviluppo di un certo tipo di problema non abbiamo prove certe. Quello che credo di poter dire è che qualsiasi esperienza che faccia sentire una persona indegna di amore, cura, attenzione e stima, soprattutto se precoce e prolungata, e soprattutto se subita per mano di un caregiver, tenda ad avere effetti negativi profondi su chi la subisce.
Elemento che forse ha lasciato traccia nel linguaggio: è “mortificante”. E si tratta di esperienza “mortificante” tanto per il corpo quanto per la mente. Anche se, per fortuna, non tutti pagano lo stesso prezzo. Più solido è il dato per cui traumi relazionali prolungati vissuti nel corso dello sviluppo per mano di genitori o parenti prossimi tendano ad avere conseguenze, in genere, più stabili e ad ampio spettro di traumi focali vissuti in età adulta. Ma anche questo non è sempre vero – basti pensare alle vite spezzate delle vittime di esperienze estreme subite in età adulta, come quella dell’olocausto.

Oltre al dolore, ci sono altri sintomi fisici che il paziente esposto ad un evento traumatico può provare?

Certo, moltissimi. Oggi si sta studiando molto la fibromialgia, ma pensiamo anche a una ipersensibilità agli stimoli sensoriali in generale, o a stimoli sensoriali specifici, alle conseguenze dolorose e posturali di stati di tensione muscolare cronica, a sintomi pseudo-neurologici (i celebri sintomi “isterici” così diffusi alla fine dell’Ottocento). E sembra che perfino lo sviluppo di patologie oncologiche possa essere facilitato da storie di tipo traumatico. Ancora una volta, non abbiamo dati solidi che indichino una correlazione specifica trauma-sintomo, e forse il perché una persona traumatizzata sviluppi un sintomo x o y diventa più comprensibile se indaghiamo i particolari della sua specifica storia di vita e la “forma” specifica assunta dai loro traumi, oltre che il suo particolare profilo genetico ed epigenetico, ovviamente. Insomma, si è sempre in presenza di determinanti multiple e percorsi patogenetici complessi.

In questi giorni, si parla molto di violenza sulle donne e il fenomeno pare essere di dimensioni molto maggiori a quanto percepito. Tutti noi potenzialmente potremmo avere una conoscente vittima di una qualche forma di violenza. Quali possono essere degli indicatori che possono spingerci a pensare che la nostra conoscente stia vivendo una situazione problematica?

È una domanda davvero difficile, questa. Per vari motivi una donna può essere portata a non parlare di quanto le accade, soprattutto in un rapporto intimo. Per quanto possa sembrare paradossale, spesso le persone vittime di violenza, infatti, tendono a pensare, in modo più o meno consapevole, di non meritare un trattamento migliore, o che il partner (o il genitore) che le tratta così lo fa perché ha egli stesso dei problemi, ragion per cui se solo lei riuscisse a dargli ciò di cui ha bisogno, il tutto si risolverebbe. Spesso le vittime di violenza poi pensano, o sono indotte a pensare, che non potrebbero vivere senza la persona che fa loro violenza, o che non sarebbero in grado di vivere relazioni migliori. E spessissimo pensano che la violenza del partner l’abbiano provocata loro, quindi sia qualcosa di meritato di cui si vergognano.
Insomma, per sapere cosa gli accade davvero è necessario creare una relazione caratterizzata da intimità e fiducia. Inoltre, se di sicuro non è un buon segno il fatto che una persona, iniziata una relazione intima, si isoli dai suoi amici, non racconti mai nei dettagli cosa succede con il partner, sembri spaventata dalla possibilità di dire o fare qualcosa che normalmente avrebbe detto o fatto, non possa mai passare del tempo senza il partner e con altre persone, o appaia molto in difficoltà quando le viene proposto, queste non sono di per sé prove del fatto che subisca violenza. Personalmente, presterei molta attenzione anche alla presenza di violenza nella famiglia di origine della persona e a pregresse relazioni violente. E cercherei di capire se il partner violento fa uso di sostanza, in particolare di alcol, o ha già avuto in passato manifestazioni di violenza e problemi con le forze dell’ordine.

Come potremmo aiutare una persona a noi cara se sospettiamo che possa esser vittima di una violenza psicologica o di un trauma non superato?

Per non dilungarmi troppo, direi: creare un clima intimo e di fiducia, priva di giudizi di stampo morale, in modo che si possa aprire. E poi aiutarla ad accedere a una buona terapia e alle risorse che le istituzioni offrono per proteggersi dalla violenza e denunciarla. Sapendo che si tratta di un percorso lungo, emotivamente e spesso anche concretamente irto di difficoltà. Ma percorribile.

In ultimo, si legge spesso anche del fenomeno della colpevolizzazione secondaria e su questo c’è una gran polemica mediatica: da un lato c’è chi dice che la vittima in qualche modo se l’è andata a cercare esponendosi a situazioni di pericolo e non cogliendo i segnali precoci di un rapporto patologico; dall’altro si parla di soggetti incubi in grado di cercare le proprie vittime tra le persone più fragili. Qual è a suo avviso il giusto modo di inquadrare la questione?

Credo che ogni persona debba essere libera di fare ciò che vuole – sempre che ciò non implichi ledere un’altra persona – senza che debba temere di subire alcuna conseguenza negativa. Detto in modo semplice: se una donna gira nuda per strada, questo non autorizza nessuno a molestarla o farle violenza. Al tempo stesso, però, personalmente non credo che ciò debba esimere un terapeuta dal chiedersi, e dall’esplorare con lei, perché lo faccia, dal momento in cui un comportamento del genere la espone a un pericolo. Porsi una domanda del genere e cercare una risposta, però, non vuole dire esimere neanche in parte il colpevole dalle proprie responsabilità. Da terapeuta aggiungerei anche che sarebbe utile, in sede clinica, mettere da parte atteggiamenti moralistici di qualsiasi tipo per aiutare le persone a comprendersi meglio, e a diventare più pienamente se stesse e più libere.
Sì, non credo che esistano persone che nascono “mostri”, e sono molto a disagio quando si affrontano problemi complessi, soprattutto se di rilevanza sociale, pensando che la soluzione passi per l’individuazione di “cattivi” (siano essi i russi, i palestinesi, gli israeliani o gli uomini eterosessuali bianchi) e “buoni”. È un modo di pensare primitivo e ascientifico che non favorisce alcun progresso reale né nella comprensione né nella soluzione dei fenomeni, ma induce reazioni eccessive e unilaterali che in genere preludono ulteriori reazioni eccessive e unilaterali che vanno in senso opposto.
Inoltre, quando si parla di donne che subiscono violenza nel contesto di una relazione intima stabile, spesso la soluzione del problema necessita di una valutazione delle peculiarità della relazione nel suo complesso, e dei suoi particolari “circoli viziosi”, che coinvolgono entrambi i partner e possono essere tanto dolorosi quanto difficili da modificare. Senza che, ancora una volta, ciò significhi che dal punto di vista reale o morale non ci siano colpevoli.
Ma, e forse questo non è più così scontato, l’indagine scientifica dovrebbe porsi aldilà del problema di ciò che è moralmente o politicamente corretto, mirando a comprendere “la verità” delle cose. Solo che a questo punto dovremmo chiarire cosa si intende per verità e quindi riflettere sulla particolare epistemologia che, in modo più o meno consapevole, è alla base di molto del discorso pubblico contemporaneo, cosa che però credo davvero esuli del tutto dal tema di questa intervista.

Intervista  a cura di Roberto Nappi